Fresco di laurea in vulcanologia, Gianfranco fatica a trovar lavoro. Le spese della vita in comune con la sua ragazza, con cui da poco è andato a convivere, cominciano a farsi pesanti, e così il nostro finirà per entrare nell'assurdo e alienante mondo dei call center - che uno dei personaggi del film giustamente identifica come vera e propria versione moderna (e per di più senza limiti temporali, aggiungo io) della naja dei tempi che furono.

Il regista - Federico Rizzo, in passato lui stesso impiegato in un call center - usa uno stile estremamente disincantato e ironico che, con i suoi sconfinamenti nell'assurdo, ricorda un po' i primi Fantozzi. Il film è però punteggiato da numerose testimonianze di veri operatori di call center che, presentate in un bianco e nero sporco e cupo, fanno da contrappunto alle più colorite vicissitudini del protagonista - anche se, andando avanti nella visione, si nota come il confine che separa realtà documentaristica e finzione scenica tenda a farsi via via più labile.

Pur nella sua povertà di mezzi (o forse proprio per quella), Fuga dal call center è, tra i film che mi è capitato di vedere sul tema, quello che mi è sembrato meglio centrare il bersaglio. Qui il precariato non è solo un momentaneo incidente di percorso, come nel giovanilistico Generazione 1000 euro, o come in fondo anche nel pur ottimo Tutta la vita davanti di Virzì. Nel film di Rizzo il precariato è presentato per quello che davvero è oggi nella vita di tante, troppe persone: una condizione esistenziale che tiene in perenne stato di animazione sospesa chiunque, per un motivo o per un altro, sia stato anche per un breve istante sconfitto dalla vita.