In questi giorni mi sto godendo Lone Survivor, un gioco horror indie dalla grafica pixellosa, ma dotato di un'atmosfera magnifica, in grado di ricordare i Silent Hill dei tempi migliori. Un po' di proposito, un po' per necessità, me lo sto giocando a notte fonda, in cuffia, con le luci spente, il portatile che tengo sempre a portata di mano chiuso, il cellulare e l'iPad silenziati. Una condizione di isolamento totale, insomma, grazie alla quale posso assaporare appieno questo titolo. Ma si tratta di un'eccezione notevole...

Di solito, quando ho il tempo di giocare, lo faccio comunque buttando un occhio sulle finestre e le chat aperte sul portatile, e tenendo l'orecchio teso verso le notifiche dell'iPad o gli squilli del cellulare. L'esperienza di gioco diventa così frammentata, fatta di tanti singoli momenti isolati. E non sono il solo: so di gente che mentre gioca chiacchiera con gli amici attraverso la chat vocale, o ascolta musica, o sta attaccata a Twitter a fare il resoconto passo passo di ogni sua mossa...

E allora mi viene da pensare che è pure normale che, nella realtà iperconnessa in cui ormai viviamo, a spuntarla siano più che altro i giochi che si adattano a questo ritmo sincopato, e che i titoli che invece richiedono uno sforzo anche minimo di immersione, di immedesimazione, vengano spesso frettolosamente liquidati e messi da parte. I match brevi e intensi del multiplayer competitivo da un lato, e i casual game di Facebook, perfetti da tenere sullo sfondo, dall'altro.

Da passatempo i videogiochi diventano dei riempitempo, di un tempo già di suo debordante e caotico. E alla fine, probabilmente, Campo Minato li seppellirà tutti...

...anche nella sua versione hippie, Prato fiorito...